25 aprile – Le donne nella resistenza

Il 25 aprile in Italia si celebra la festa della Liberazione.

L’occupazione tedesca e fascista in Italia non terminò in un solo giorno ma si considera il 25 aprile come data simbolo, scelta convenzionalmente come giornata di Festa nazionale perché quel giorno, nel 1945, iniziò la ritirata da parte dei soldati della Germania nazista e di quelli fascisti della Repubblica di Salò e incominciò l’arrivo dei partigiani e degli alleati nelle città del Nord Italia, altre città erano già state liberate precedentemente, come Genova, Bologna, Forlì.

L’anno seguente, il 22 aprile del 1946 venne emanato un decreto  legislativo  che recitava: “A celebrazione della totale liberazione del territorio italiano, il 25 aprile 1946 è dichiarato festa nazionale”, ma solo nel maggio 1949 è stata istituzionalizzata stabilmente quale festa nazionale e si fissò la data in modo definitivo.

 Da allora, annualmente in tutte le città italiane – specialmente in quelle decorate al valor militare per la guerra di liberazione – vengono organizzate manifestazioni pubbliche in memoria di questo evento.

Quest’anno, che cade il settantacinquesimo, l’associazione VocidiDONNE ha pensato di celebrarlo proponendo brani scritti e dedicati alle esperienze vissute in prima persona dalle donne durante la resistenza. Se la guerra è stata per lo più combattuta dagli uomini, l’impegno delle donne è stato importantissimo anche se spesso ignorato.

Carlo Smuraglia, presidente emerito dell’ANPI, in un suo intervento ricordava che la partecipazione femminile alla Resistenza non è stata dimenticata ma sottovalutata, relegando le donne a un ruolo secondario, a un ruolo di comprimarie.

Marisa Ombra, scrittrice e dirigente dell’UDI (Unione Donne italiane) sottolineava che le donne sono riconosciute parte integrante della Resistenza dal Comitato Nazionale di Liberazione-Alta Italia.Cosa successe allora in quegli anni per le donne?
In contrapposizione alla donna “autentica” fascista, di cui erano state definite anche le misure: alta un metro e 60 per 56, 60 chilogrammi di peso, quindi con fianchi larghi e seno prosperoso per essere Madre orgogliosa e prolifica di figli per la Patria, ci sono le partigiane. Libere, coraggiose sui monti o nelle città del Nord.

È una nuova soggettività femminile, individuale e collettiva che entra nella storia delle donne e si intreccia in quella generale dei popoli.
Quello che le dichiarazioni non dicono è ciò che succedeva nella testa di quelle donne nell’atto di fare la scelta di schierarsi. Sì, perché se per l’uomo le opzioni erano: essere soldato, partigiano, repubblichino o ancora renitente, ma comunque opzioni obbligatorie, per la donna la scelta di impegnarsi fu personale, individuale e fu presa liberamente.

C’erano le staffette vere e proprie, alcune erano “anziane” nel senso che avevano subito esperienze pesanti sulla propria pelle: processi, condanne, confino; come: Liliana Rossetti, Ergenite Gili, Giorgina Rossetti, Alba Spina, Iside Viana, quest’ultima morta in carcere; altre erano molto giovani. Quali: Maria Lastella, Nella Zaninetti, Cesarina Bracco, Neva Bracco, Anna Pavignano. Erano staffette nelle fabbriche e lavoravano al posto degli uomini. Poi, c’erano le sartine che cucivano le giacche e le divise per i partigiani  e  le infermiere che curavano i feriti: per esempio Carla Valè che a Donato aveva creato un’infermeria.

All’interno della Polizia Partigiana c’era, per esempio, Luisa Giachin Bruna che era il braccio destro del Comandante Peraldo, nome di battaglia Alba.

Il politico, senatore Pietro SECCHIA in un suo libro SCRIVEVA

“Caratteristica fondamentale della resistenza femminile, che fu uno degli elementi più vitali della guerra di liberazione, è proprio questo suo carattere collettivo, quasi anonimo, questo suo avere per protagoniste non creature eccezionali, ma vaste masse appartenenti ai più diversi strati della popolazione, questo suo nascere non dalla volontà di poche, ma dalla iniziativa spontanea di molte.

Un ingranaggio importante della complessa macchina dell’esercito partigiano.

Dovevano con materiale pericoloso, attraversare torrenti, percorrere centinaia di chilometri in bicicletta o in camion, spesso a piedi, non di rado sotto la pioggia e l’infuriare del vento, sfidando i pericoli dei bombardamenti e del tedesco in agguato.

Spesso dovevano precedere i fascisti che salivano, per avvertire in tempo i nostri, e talvolta restavano coinvolte nei rastrellamenti.

Se c’era un ferito da nascondere rimaneva la staffetta a vegliarlo, a prestargli le cure necessarie, a cercargli il medico, a organizzare il suo ricovero in clinica.

Le staffette andavano nell’abitato in cerca di viveri, di medicinali e di quant’altro occorreva. Infaticabili, sempre in movimento notte e giorno per stabilire un collegamento, ricercare informazioni, portare un ordine, trasmettere una direttiva;
Numerose staffette caddero in combattimento o nell’adempimento delle loro pericolose missioni.”

Se Secchia parla di impegno di massa, le parole di TINA ANSELMI puntano alla singola donna.

Il lavoro della staffetta è stato un lavoro molto pericoloso, perché è stato essenzialmente un lavoro solitario. Voglio dire che la staffetta non aveva praticamente nessuna copertura alle spalle, era sola, gli veniva dato un ordine e doveva realizzarlo. Naturalmente, da quel momento in poi tutto dipendeva da lei, dalla sua lucidità, dal suo coraggio, dalla sua prontezza di spirito nel capire che cosa era più giusto fare, e questo non era semplice. E posso dire che non avevano dietro alle spalle chi le consigliasse, un distaccamento minimamente organizzato, in cui vi fosse un comandante al quale, anche se aveva soltanto 19-20 anni, erano state impartite le istruzioni, per cui aveva comunque un’idea su come comportarsi. Le staffette dovevano inventare velocemente qual era la cosa più giusta da fare. Più giusta nel senso che poteva salvare la tua vita e quella della formazione. In quei momenti la staffetta si misurava con sé stessa e, di colpo, da ragazzina diventava persona adulta, imparava il senso di responsabilità.

Ecco, il senso di responsabilità è stata la cosa più importante che abbiamo imparato nella guerra di Liberazione ed è quello che almeno personalmente mi ha guidato in tutte le fasi successive della mia vita, in cui ho continuato a fare politica con le donne, politica per le donne. Senso di responsabilità personale e senso di responsabilità verso gli altri, direi verso il mondo.

 

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